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Il futuro dopo l’emergenza Covid-19 passa per le smart city

12 giugno 2020

E se questa fosse l’opportunità per dimostrare a noi stessi e al mondo intero che cosa voglia dire essere una Smart City del futuro?

By Toni Fanelli

Un tempo inatteso, quello che stiamo vivendo, in cui tutti (proprio tutti) stiamo facendo “esperienza del vuoto” a causa della separazione da chi amiamo, o causa dell’impossibilità di vivere le nostre abitudini.

Partendo dal vuoto che in questi giorni attanaglia la nostra esistenza, fino ad arrivare al vuoto delle nostre piazze che timidamente tornano a popolarsi, diventa ancora più urgente ripensare proprio a quegli spazi che presto ritorneremo a riempire. Quanto sarà diverso il mondo che troveremo dopo la il Sars-CoV-2, non lo sappiamo ancora, ma qualcosa possiamo già immaginarlo, perché certamente dovremo abituarci ad una nuova forma di convivenza, dove lo spazio “ripensato”, oltre che a soddisfare la necessità tradizionale di aggregazione dovrà garantire una distanza di sicurezza fra le stesse persone che lo popoleranno. Ecco che, con questa ridefinizione di vuoto e pieno, con questo stiramento degli spazi, l’identità del singolo sarà costretta a fare i conti con nuove forme di relazione con la comunità, costituendo con essa una nuova identità comunitaria.

Perché, nonostante tutto, il futuro si riveli migliore di prima sarà necessario uno sforzo che ci faccia cogliere questa terribile crisi come un “acceleratore di eventi” verso quegli scenari di innovazione urbana che erano già nella testa dei designer più illuminati, ma che ora diventano imperativo assoluto e immediato per ciascuno di noi.

Progettisti del futuro

Posso dire con certezza che in Stantec, grazie ai numerosi strumenti intellettuali e ad una realtà aziendale che punta sull’innovazione dei servizi avanzati, sentiamo il dovere di pensare al mondo di domani. In fondo, la nostra anima di ingegneri, architetti e scienziati è portata naturalmente a immaginare il futuro e a trovare nuove soluzioni.

Tutto questo rimanda fortemente ad un tema a me molto caro: “Le città del (nel) futuro”: argomento vastissimo, che ho potuto analizzare in alcuni incontri tenuti in azienda a fine gennaio scorso, introdotti da una splendida lezione di Elena Granata, urbanista del Politecnico di Milano.

Parlare di città non è affatto semplice già dalla sua definizione. Partendo dal declinare il concetto di città come Luogo dell’Umano, vasto e complesso, incontreremo significati di città che nascono per risolvere le problematiche sanitarie dando vita all’urbanistica; di città come dicotomia del costruire e dell’abitare, come racconta l’antropologia culturale; di città costituita dalle fitte connessioni umane, come suggerito dalla biologia evolutiva e dalla psicologia ecologica; di città come forma di accoglienza dell’agire umano, come per l’architettura; di città come modalità di esistere dell’individuo, come per la psicologia; di città come forma di convivenza fra culture, come studiato dalla sociologia; di città come stratificazione delle civiltà, come avviene per la storia e poi chissà quante altre definizioni potrebbero sorgere domani.

Dalla diversa traduzione di questo unico soggetto formalizzata in così tante dottrine ci rendiamo conto di come il concetto di città coinvolga tutto quanto il nostro essere Uomini, il nostro essere manifestazione multiforme di culture, sensibilità, credenze, percezioni e necessità.

Ed è impressionante, sintomatico, e allo stesso tempo significativo accorgersi di come, proprio nelle città, luogo della convivenza, della relazione, del dinamismo, della temporalità, si sia abbattuta tale inaspettata forma di arresto esistenziale.

E se questa fosse proprio la prova del nove? Se questa fosse l’opportunità per dimostrare a noi stessi e al mondo intero che cosa voglia dire essere una Smart City del futuro? Rispondendo sensatamente proprio alla frustrazione dell’essere isolati, del sentirsi vuoti, spetterà a noi – soltanto a noi – far sì che questo cigno nero, evento imprevedibile che si è abbattuto su tutti noi, si trasformi in un’opportunità di rinascita.

In questa esperienza di isolamento di massa, la tecnologia ci sta efficacemente sostenendo nelle comunicazioni con la disponibilità di efficientissime piattaforme web per i meeting, lo sta facendo nelle produttività con le forme di lavoro agile, con applicazioni che ci informano sullo stato dell’emergenza sanitaria, con una costellazione di prodotti informatici che pervadono ogni nostra necessità e presto lo farà anche con applicazioni che aiuteranno a monitorare le dinamiche sociali che potrebbero mettere a rischio la comunità. Tutto questo oggi è possibile grazie all’enorme sviluppo che da tempo è stato impresso alle infrastrutture tecnologiche che silenziosamente allargano, giorno dopo giorno, i confini delle nostre connettività.

Nonostante l’incessante progredire delle tecnologie, ci sentiamo soli, chiusi agli arresti domiciliari e stiamo riscoprendo l’importanza della vicinanza corporale, fatta di contatto fisico. Oggi ci stiamo rendendo conto che siamo esseri fisici che adoperano la tecnologia non per ricercare nuovi spazi virtuali, ma soprattutto per creare nuovi spazi di incontro, corporei e reali. Ci stiamo rendendo conto che, per colmare tutte le nostre esigenze, la tecnologia non può essere l’unica risposta.

Il parco di Monza, il più grande parco in Europa recintato da mura, antico esempio di biodiversità inserita nel tessuto urbano e ricco di edifici di valore architettonico.

Un nuovo concetto di Smart City

Quindi, per risollevarci da questa frustrante sensazione in cui ci siamo improvvisamente ritrovati, residui di una modernità che non c’è più, nei prossimi mesi potrebbe essere necessario giocarsi l’opportunità di cambiare davvero “quel paradigma” tanto agognato dai filosofi contemporanei, dai sociologi, dagli urbanisti, dai designer più visionari che già da tempo si sforzano di ripensare lo spazio urbano.

Smart City non vuol dire – come ci fa credere la propaganda commerciale – semplicemente città tecnologica; il vero concetto di città moderna è qualcosa che va ben oltre lo sfruttamento di infrastrutture, l’uso di app, o il concetto di comunità urbana al quale siamo ancora aggrappati, si spinge addirittura oltre il concetto di umano così come lo abbiamo conosciuto e sperimentato fino ad oggi.

Il cuore della questione sta nella capacità di creare connessioni fra le biodiversità che colmano questi enormi aggregati antropici, biodiversità intesa (come intende Granata) nel suo concetto più ampio di variabilità, moltitudine di conoscenze, culture, sensibilità, come vera espressione di potenzialità.

La città, così, diventa espressione del progettare non specialistico, non è più una questione dei soli urbanisti, dei soli architetti o ingegneri, ma è rivelazione di menti interconnesse; un sapere più colto, multidisciplinare e quindi in grado di rispondere davvero alla complessità di un ecosistema fatto di tutta la multiformità umana.

Il paradosso è che all’interno delle nostre città caotiche, iper-costruite e sovrastrutturate, contrariamente all’apparenza non c’è un eccesso di progettazione, ma un deficit di progettazione; almeno come cominciamo a intenderla ora. Il problema è soprattutto decifrare i rapporti che si stabiliscono tra gli esseri viventi, le relazioni fra di loro e le esigenze economiche che ne permeano i loro comportamenti e, poi, come tutto questo impatta con l’ambiente.

Per il lungo cammino di ricostruzione dalla crisi mondiale in cui ci ha posto il Coronavirus, dovremmo far riferimento ai nuovi metodi di progettazione che utilizzano proprio la potenza della multidisciplinarietà; così come avviene per le metodologie di Design Thinking e User Experience “UX” Design (per intenderci quelle nate nella Silicon Valley…), che oggi rappresentano un’ottima opportunità anche per attuare la progettazione urbana. Oggi, tutti i più grandi designer constatano che solo in questa prospettiva sarà attualizzabile il rinnovamento dei modelli d’innovazione: dalla rigenerazione urbana, al miglioramento infrastrutturale, dalla ricostruzione della pubblica amministrazione, all’emancipazione dei servizi ecosistemici e più in generale al ripensamento di una policy intesa come atto progettuale e trasformativo. Con queste pratiche, tutti i partecipanti ai processi di design avranno a disposizione un nuovo approccio alla complessità socioeconomica e un progressivo ripensamento dei processi e strumenti di governance tradizionale.

Con tutti questi nuovi strumenti, al passare di questa difficile prova, saremo più forti? Forse sì, ma dipenderà da quanto coraggio avremo nel porre discontinuità col passato, da quanto ci emanciperemo dalle insicurezze ataviche dettate da quel “piccolo mondo antico” dell’individualismo o peggio ancora dalle alleanze chiuse, dalle relazioni serrate, proprie delle tribù; articolazioni antropologiche che ormai si svelano totalmente incompatibili con l’espressione di “comunità aperta” di cui oggi abbiamo, più che mai, estrema necessità.

 

Informazioni sull'autore

Toni entra in Stantec nel 2003, come responsabile tecnico e gestionale di progetti nell’ambito HSE e di ingegneria industriale; oggi si divide tra il ruolo di consulente e quello di docente di scienze presso diversi Licei Statali.

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